top of page
  • Immagine del redattoreGiano

LUNGHI CAMMINI EDUCATIVI

Aggiornamento: 7 mar 2022

Dicembre 2017 sono assunto dall'associazione Lunghi Cammini di Mestre (www.facebook.com/lunghicammini ) per fare un lungo cammino educativo secondo il modello francese di Seuil (Parigi) (assoseuil.org ). Nasce un lungo viaggio di un mese tra me come accompagnatore e un ragazzo (H.) segnalato dai servizi sociali di San Donà lungo il Cammino Francese di Santiago de Compostela. Ecco la nostra storia:


Capitolo 1. Partenze

1-5 dicembre 2017 / Venezia-Rabanal del Cammino

"C’era una volta una storia che parte da un punto e arriva ad un punto, in un tempo in cui c’è una tale urgenza di essere grandi che non si può vedere l’essere piccoli: questa storia tra il giovane H. e il suo accompagnatore-scriba M. comincia proprio nei paraggi.

Nella partenza per un grande viaggio sembrerebbe necessario tagliare con casa e invece spesso si attende proprio sulla soglia della partenza, il benestare di chi si vuole lasciare: quasi ad avere una forza aggiuntiva, una bene-dizione sul viaggio. Si sa le avventure sono così dense di disavventure che un amuleto protettivo non fa mai male. Ma per H. non fù così: il 3 dicembre data del volo, alla vigilia del viaggio papà e mamma non si presentano sul contratto. Sì perché così cominciano i lunghi cammini: con un contratto. Del resto la famiglia ce la dà la natura, ma con chi ci accompagniamo poi è fatto di accordi e negoziazioni. Proprio sulla firma di quel contratto tra noi, conosco H. e tutta la regia corte dei servizi sociali e dell’associazione Lunghi Cammini che crea l’opportunità di questo viaggio di circa un mese. Un contratto che mette sul tavolo aspettative, impegni e vincoli reciproci: siglato, firmato da tutte le autorità compreso H. e io che sono accompagnatore-scriba. Il viaggio ci porterà ai confini dell’occidente, in terra di Spagna da Astorga fino a Finisterre per 22 giorni (1-23 dicembre 2017). Il contratto è veramente cosa da grandi: infatti mentre in casa le cose vengono date come dovute, in terra straniera tutto ha un equilibrio di dare ed avere, che comporta vantaggi ma anche vincoli-regole e alleanze, nonché rotture.

H., 16 anni, carnagione olivastra, con dei lineamenti indiani parla di origini non italiane e allo stesso tempo una lunga permanenza in Italia. Sul tavolo di quel contratto, ignaro come me, di quello che ci sarebbe accaduto nel prossimo mese assieme, si dice “tenace ma irascibile”. L’occhio scuro, i capelli neri, il pizzo della prima barba tradisce dietro la voglia di viaggio anche un desiderio di fuga, quasi a buttarsi dietro cose che poi si portano sempre con sé. Ma in lui c’è fretta di sanare altrove. Mi parla di feste e cerca di scucirmi una mezza promessa di possibili trasgressioni in Spagna, a cui dico di no, guadagnandomi subito “vecchio” che non sa divertirsi. Sepolto dietro questo bisogno estremo di trasgressiva festa fatta di marijuana, c’è un trasporto per il bello: mi parla di arte, di Van Gogh e Picasso, di Mantova e del castello dei Gonzaga. Ma senza prendere troppo sul serio queste velleità, sono cose “da bambini” e non c’è tempo. Bisogna correre alle cose da grandi: le feste al di là delle regole. Chissà in Spagna! Con fare autentico e diretto, perché così si racconta: “non mi piacciono le mezze cose, sono tutto d’un pezzo… se ti devo dire una cosa te la dico in faccia: anche stronzo se necessario”. Escluse le tonalità intermedie, rimangono in campo solo le tinte forti anche della rabbia. “Se mi vedi zitto oppure corrucciato preoccupati, perché io scoppio”. Finchè lo pronunciava, siglava anche il detto “uomo avvisato mezzo salvato”. Con lo stesso stile trasparente e diretto chiedeva di poter fare trasgressioni in Spagna, quasi che dietro una domanda autentica la risposta debba essere per forza affermativa, in “fondo non ho mica ingannato”. Come non esistono le vie di mezzo non esistono nemmeno le mediazioni ai propri bisogni. Mi sembra di aver per le mani un aquilone che talvolta tira gonfiato dal vento e strappa per volare, talvolta bisogna soffiarci dentro per evitare che plani a terra. Inoltre è inutile dimenticarlo, la responsabilità rimane e mollare l’aquilone vuol dire perderlo.

Tra il 1 e il 3 dicembre sulle rive del Sile si consuma la preparazione e l’accordo, una veloce convivenza: nell’alloggio che ci ospitava una quadro con una foto di Albert Einstein. H. mi confessa che è infastidito del suo fissarci a tavola e poi leggo la scritta nel quadro: “La gravitazione non è responsabile del nostro cadere innamorati”, da lì capisco il suo fastidio.


Dall’oblò dell’aereo la laguna veneta e San Donà da cui è partito: curioso, certe volte per vedere qualcosa bisogna essere fuori, lontano o dall’alto. Da dentro non si vede. H. scruta finchè può quella terra che ha attraversato più volte da dentro in questi 16 anni in cerca di spazi conosciuti e me li segnala. A Barcellona (primo scalo del nostro volo), in perfetto stile con questi tempi, è già un esperto di voli, check in, documenti, prenotazioni ecc. Poi finalmente a Madrid ma prima di atterrare il tramonto: H. arrabbiato si offende perché lo spettacolo del sole va in onda solo per l’altro fianco dell’aereo, “evidentemente hanno pagato di più”. Gli faccio notare che questo spettacolo va in onda gratis ogni sera e mentre lo dico sorprende anche me. Di lì una metropolitana infinita nel cuore della città ci fa attraversare il buio della sera.

La capitale di Spagna “chissà che feste”! Io in cerca del nostro alloggio e lui in cerca di dove vive e si alimenta l’eccitante trasgressione: la movida. Movida è stata nel senso che si è dovuti camminare per giungere all’alloggio e poi mediare per il pagamento, “ma questi sono dettagli che per le urgenze eroiche di questi tempi” non si vedono. Insomma quando finalmente l’accompagnatore ha sbrigato questi dettagli noiosi, ci siamo immersi nella Madrid notturna. La movida al di là di una capitale stanca si è esaurita alle 23,30 con le chiusure dei locali e quasi, quasi il divertimento sconfinava con la normalità, ma diciamolo sottovoce per non rompere l’incanto adrenalinico del nuovo. Sarebbe troppo semplice e dovrebbe convivere con l’insopportabile noia. Impossibile, la movida è sempre di là, da qualche parte che poi si annoda in parole esagerate di H. per di nuovo svuotarsi. Eccesso che cerca l’eccesso anche per sedarsi di questa esaurente ricerca.

Con aria furtiva la mattina presto eravamo già in autobus per Astorga e per fortuna mi fa notare H. che il bus ha video in ogni sedile. Arrivati ad Astorga, visita alla città ma anche al Museo della cattedrale e lo sguardo si appoggia anche sul monumento di Gaudì al peregrinos. Peregrinos nome che sentiremo intonare più volte. Già nel museo appare San Giacomo (Santiago) con i suoi simboli e tutte le sue leggende



H. stanco vuole il primo Albergue e io decidendo di cercarlo a vista e senza mezzi digitali, con grande disappunto di H., siamo costretti a cercarlo chiedendo e cercando. Giunti si trova seduto davanti ad una splendida statua dedicata ai pellegrini, che già racconta fatica.



Notte tranquilla senonchè H. mi confessa che nella spasmodica voglia di “maria” sposta una mattonella un po’ sconnessa del pavimento sperando di trovarla lasciata lì da qualcuno e invece rimane in mano sua solo un biglietto con il disegno di un serpente avvolto nelle spire e una scritta che in inglese recita: “qualcosa emerge nel cammino come un serpente che si avvolge nelle sue spire” e “così mi riscopro”.



Da lì una prima lezione del cammino: nulla si incontra per caso e forse tutto incontra proprio noi. Gli incontri imprevisti sarà un altro capitolo di questo viaggio."

In fede lo scriba-accompagnatore M.


CAPITOLO 2. La poltrona e il cammino

6-15 dicembre 2017 / Rabanal del Cammino –Monte de Gozo

"C’era una volta una storia che parte da un punto e arriva ad un punto, in un tempo in cui c’è una tale urgenza di essere grandi che non si può vedere l’essere piccoli: questa storia tra il giovane H. e il suo accompagnatore-scriba M. si confronta con queste fatiche.




“Sai che comodità: una poltrona e su una mano una canna e sull’altra delle patatine per schimicare”. H. mi racconta esattamente l’opposto del “cammino”: quello che ci attendeva su quei piedi nel nostro viaggio assieme e me lo racconta come un paradiso perduto da ripristinare al più presto. In questo mito mi racconta dei “personal e del chiusino”. Personal è l’utilizzo di marjuana in solitaria. Chiusino è una sorta di fumo passivo realizzato stando in un posto piccolo in più di uno, chiuso appunto. La parola chiusino mi risuona spesso nel nostro cammino, tanto che alla fine mi diventa sinonimo di corto circuito. Sì perché mi chiedo come si fa da quella poltrona a capire che cosa si può o non si può fare in una vita: come si possono misurare limiti e quindi possibilità, se non si va fuori e ci si prova? Come se il circuito dell’esperienza fosse troppo corto per permettere di apprendere e apprendersi. Nel corto circuito, il potenziale della corrente elettrica fa saltare l’impianto perché non è stata impiegata in un lavoro. Lo stesso penso a 16 anni: con in tasca l’energie delle infinite possibilità, l’urgenza di essere subito risolti e la mancanza di tempo per imparare come impiegarla. Se non c’è lavoro il sistema va in corto circuito.

Ecco il cammino è proprio questo esercizio con il tempo: ti chiede una fatica e talvolta anche dolorosa che è appesa ad una speranza di compimento che non è né qui né ora, ma è dopo e là e forse dietro l’angolo. Ecco che con H. mi sono sentito spesso uno “spacciatore di speranza” per tenersi fin che ne hai sul cammino. Come gli spacciatori ero costretto a sedurlo alla mia mercanzia: dopo, là in fondo, alla fine c’è un bene maggiore che ora non si vede. Senza questa speranza appesa tra desiderio e pensiero il cammino non parte perché se cerca il suo compiacimento ora non lo trova. Quante inchiodate lungo la strada oppure brusche accellerate, perché così si finisce prima. Quanti “avevi ragione” conditi con “mi hai fregato”, “mi avevi detto che saremmo arrivati”. Quante sorprese dense di stupore oppure di rabbia da aspettativa delusa. Quanto il sortilegio della speranza che ci tiene sul cammino si attacca a stratagemmi, astuzie, seduzioni e distrazioni. “Ho camminato senza pensarci e così è volato via”. Oppure “non vedevo l’ora di uscirne e tutto” è diventato ricerca di poltrona. Non mi è chiaro quanto in fondo al cammino abbiamo trovato quello che ci aspettavamo oppure i nostri sogni, ma son certo di due cose: quei sogni servivano per partire e il loro compimento è nulla in confronto agli accadimenti che ci hanno incontrato. Anzi mi sono convinto che le speranze sono degli espedienti per incamminarsi: poi è camminando che trovi e ti trovi. Affidandoti agli imprevisti e sentendo una loro bontà di fondo oppure scoprendola nell’esporti agli accadimenti. Ma tutto ciò non lo si insegna lo si cammina.

H. alla fine del viaggio alla domanda che cosa hai imparato, risponde a “buttarmi dietro le cose”: quasi a dire che il desiderio si ripulisce nelle esperienze e sta in piedi solo ciò che serve e il resto muore con le fantasticherie-paure della poltrona che sta a guardare il mondo.



La barca è più al sicuro ancorata al porto, ma quello non è lo scopo della barca.









Quante salite, quante discese, quante intemperie fino a non farci più caso: diventa un ritmo e senti che non ti ferisce più. Il male ai piedi c’è ma è stranamente calpestabile, la spossatezza si rigenera in una notte eppure avevi giurato l’impossibilità. L’abitudine addomestica il male e l’allenamento apre orizzonti di possibilità che sembravano preclusi. La pigrizia invecchia mentre la fatica in dosi sopportabili stimola la creatività della ricerca.



Aperture di luce











Chiusure di luce












Tramonti










Quante delusioni. Ricordo il volto del mio amico H. quando arrabbiato non sapeva più chi incolpare per essere nel mezzo di una prova che non si autorisolve se non con l’impegno.


Quanti desideri appesi a scrutare là lontano: uno strano luogo che trainava alle volte il nostro cammino.


Quanti riti incontrati a fare del sacrificio un valore anche se non ha guidato i nostri passi, ma in alcune sere si sono affiancati a noi.


Quanti volti e persone incontrate che ci dicono: “sai qui siamo tutti un po’ rotti” e camminano per superarsi e trasportano il dolore che cercano di perdere nei loro zaini. Poi lo appiccicano a dei sassi per lasciarlo alla montagna, che essendo grande può tenere tutto questo dolore. Un luogo serba questo segreto ed è quello della Cruz di Hierro: molte persone sotto questa croce depongono il peso delle loro storie, sperando di staccarlo e lasciarlo lì. H. ha avuto anche l’occasione di video riprendere questo rito moderno: un padre ha lasciato la scarpetta della sua bambina neonata. Tra quelle pietre sperava di perdere il dolore che la blocca in un letto di ospedale a Firenze e in modo simbolico regalarle la speranza di incamminarsi. Poi con H. scopriamo che il suo zaino è pieno di tanti di questi oggetti infantili del Meyer di Firenze che altri genitori hanno lasciato a lui.



Con H. decidiamo di prendere una di queste pietre che appesantiscono l’altezza di questa montagna e portarla fino al mare (a Finisterre) per alleggerirla.















Quante distr-azioni dalla nostra meta hanno colorato la nostra curiosità, riempito la nostra fantasia di forme, parlato di tempi lontani, adibito luoghi improbabili a nidi oppure dichiarato sui muri dei pensieri …




Quanti sguardi animali ci hanno osservato






Quanto le prove ci hanno portato agli estremi e lì abbiamo incontrato l’esaltazione e l’ebbrezza della vertigine. Proprio là dove la tempesta infuriava.

Quanto le stesse prove ci hanno portato allo stremo. Inzuppatti d’acqua e sbattuti dal vento, paradossalmente tutti sulla stessa barca oppure sulla stessa zattera. In comune con gli sconosciuti solo un cammino che passava proprio attraverso la tormenta.




In ogni dove all’apparire del nostro volto contornato da un grande zaino, ci incrociavano con la frase “Animos peregrinos”. Solo ora ho capito che era un invito a trovare in noi l’animo per tenere fede alla meta, a “fare anima” proprio nell’esperienza del cammino. E se avere una anima fosse semplicemente mantenere e allenare una motivazione interiore e salda anche quando il cammino non si fa facile?

Oppure nella versione antica Ultreya e Suseya.

Entrambe le parole derivano dal latino, ultreya : ultra (più) ed eia (avanti), mentre suseya potrebbe tradursi avanti verso l’alto. L’origine della loro apparizione sembrerebbe datare al XII secolo, in una canzone compresa nel “Codex Calistinus” che nel dare il benvenuto ai pellegrini diceva tra l’altro: “Ultreya e suseya, adjuva nos Deus”.

Questa frase potrebbe descrivere l'immaginario dialogo di un incontro sul cammino; dove vai o pellegrino? Ultreya, avanti, si rispondeva e l'interlocutore ribatteva: suseya, in alto(andrai), Dio ci protegge.



L’invito ad andare di Santiago (San Giacomo) è l’invito a trovarsi dentro una motivazione.

Il vero maestro è il cammino con la sua pratica e sono tutte quante le cose che abbiamo incontrato che fanno la nostra storia, danno senso all’esperienza e con lei il senso a noi."

In fede lo scriba-accompagnatore M.


CAPITOLO 3. Imprevisti e relazioni

6-17 dicembre 2017 / Rabanal del Cammino –Santiago de Compostela

"C’era una volta una storia che parte da un punto e arriva ad un punto, in un tempo in cui c’è una tale urgenza di essere grandi che non si può vedere l’essere piccoli: questa storia tra il giovane H. e il suo accompagnatore-scriba M. incontra tanti volti imprevisti alla partenza.


Questo montaggio tra disegno e foto è stato realizzato da uno degli amici koreani incontrati lungo l’avventura del nostro cammino. Un mese di passi lungo il cammino si popola di volti ed incontri. Sì perché il cammino di Santiago oltre che trekking è anche un evento collettivo e sociale europeo e non solo. Non a caso l’Unesco lo tutela come patrimonio culturale.

Persone provenienti da ogni dove che senza appuntamento si incontrano sui suoi sentieri e tra questi anche noi. L’incontro avviene per caso: ci si riconosce dallo zaino e poi negli albergue, dal trovarsi e poi ritrovarsi a cucinare. Dietro il disegno la cattedrale ha un’impalcatura e questo mi ricorda come si sono tessute le nostre relazioni: infatti sono gli imprevisti la regia degli incontri. L’imprevisto scombina la gestione e rende gli altri necessari, combinando improbabili comunicazioni. Sul telaio esile di questi bisogni si costruisce la prima parola dell’incontro con gli altri. Così si sfonda la solitudine semplicemente perché non si è più autosufficienti e si scopre quanto la collaborazione può essere risorsa. Ma non era pianificata anzi va in scena sul palcoscenico dell’improvvisazione e questa non ha tempo per timidezze, aggiustamenti e cosmesi dell’aspetto. Semplicemente ho bisogno e chiedo: in questa composizione relazionale il desiderio si colora di nuove tonalità. Di una semplicità che oggi spesso sembra fuori moda, troppo travestita di tecnologia, lusso e benessere.

Così anche noi depistati dagli imprevisti abbiamo incontrato.

Incontrato Armando della contea di Firenze in cammino per la sua bimba in ospedale a cui voleva restituire i piedi per uscire dalla malattia (come già raccontato in “Poltrona e cammino”). Per un po’ il mio amico H. ha adottato Armando come padre, perché la paternità si testimonia più che metterla al mondo. H. rimane sorpreso e commosso che per un figlio si potesse fare tanto, senza nemmeno clamore. Sentirsi poi da questa energia spronato a costruirsi un progetto e un senso.


Dietro Armando altri connazionali italiani che ricordavano casa: perfino partiti da terre Jesolane o dal Milanese. L’imprevisto e la relazione mescola le carte ma non sempre tutela e cura. Infatti non sono mancati proprio grazie ad italiani, occasioni di spaccio o di rissosa aggressività. Non tutti interpretano il cammino come un viaggio interiore, alcuni come vacanze a basso costo a spese degli albergue. La sera non arrivano ai rifugi per dormire stanchi ma freschi e pronti per la festa a base di alcool e altro. Poi li chiameremo busgrinos: visto che il loro mezzo non erano i piedi, ma il bus. H. con il tempo ha riconosciuto in questo, il tradimento della prova e un modo per imbrogliare la fatica e così anche la crescita.

Nei pressi di queste tentazioni di sballo, abbiamo anche incontrato altri italiani che reduci di comunità per le dipendenze tentavano il cammino come prova riabilitativa, in contatto telefonico con psicologi.

Ma talvolta duellare con i propri fantasmi non è una buona strategia per vincere: un pizzico di astuzia e prudenza insegna anche ad evitare inutili tentazioni. Così abbiamo usato i piedi per seminarli dietro di noi, anche se lo sguardo del mio amico H. spesso li vedeva con la stessa nostalgia che provava per la poltrona. Il cocktail di imprevisti e incontri ci insegnava ora la prudenza e la tutela, per proteggersi ma senza evitare l’incontro. Anche questo è umano.


Batteva bandiera italiana anche Elena delle terre del Sud ma il suo stile non era di fronteggiare il male con eroiche gesta, quanto quello di mettere al riparo perché nessuno si faccia male. Lei coglieva la fragilità e la accudiva con abbraccio materno, manteneva il filo sottile delle comunicazioni tramite i cellulari e così tesseva la rete di una comunità incontrata e non programmata. Ad un certo punto del cammino eravamo anche noi in questo intra-net. Lei curava-curandosi le sue ferite, quasi a dover riparare tutti. Porgeva l’orecchio alle storie e per prima ci svela: “qui in fondo siamo tutti un po’ rotti e camminiamo per ripararci”. Chi per cambi di vita lavorativa, chi per storie d’amore finite in cui non si riusciva a rielaborare il lutto, chi cambiava modo di vita e voleva sigillare con il cammino una rinascita, chi voleva cancellare un passato di violenza, chi voleva vincere le dipendenze da sostanze. Gli esiti e gli stili erano i più svariati, ma lei si preoccupava che a cena, la sera ci fossero tutti, almeno quelli che ci provavano sul serio. Elena questo lo chiamava il family’s cammino. H., come in altre situazioni, rimane meravigliato di un’accoglienza così immediata e spontanea, in particolare “non ci guadagna niente”: come sempre è l’imprevisto a fare dell’incontro una meraviglia. Spesso al mio amico H. gli è capitato lo spuntino offerto, il sorriso regalato, la disponibilità all’ascolto, la preoccupazione quando è scomparso e tutto senza “tornaconto”. Con Elena ha sperimentato nuovi cibi (il pulpo alla galliega oppure il latte appena munto) e in particolare è stato accolto in mille discorsi, da cui faticava a separarsi: discorsi fatti anche di consigli e di veri e propri ammonimenti. Io abituato alle gesta dell’amico H., ascoltavo e attendevo di vederlo alle prese con il campo dell’esperienza e mi chiedevo quanto sarebbe rimasto in lui di tanti buoni consigli. Mi ha colpito anche il giorno in cui nel family’s cammino si è parlato d’amore e di altre storie, raccontate da Elena ma anche dal silente tedesco Christian: la tonalità della fragilità era ricca di parole adulte e lo stesso H. si è trovato a svelare di sé cose più autentiche e meno spaccone del solito. Certe volte gli altri ci autorizzano a mostrarci perché anch’essi si mostrano.

Un capitolo a parte andrebbe dedicato agli incontri spagnoli … In particolare due: Galdino e Felipe. Galdino e i suoi tatuaggi che ricordavano tutti i passaggi significativi della sua vita, incluse le risse e altro. In una cantilena spagnola narrava di gesta così epiche che ti veniva voglia di verificare cosa c’era di vero. Anche questo si incontra nelle locande dei destini incrociati del cammino e si impara a raccogliere le parole che camminano da quelle che dicono di farlo. Oppure Felipe che si era creato la parentesi cammino, per dedicarsi un tempo a sé dopo un matrimonio, una paternità e un figlio disabile. “Gli voglio bene” e ogni sera ci presentava tutti in video alla sua famiglia, ma “non avevo più tempo per me”.

Numerosi e presenti i koreani, mai arrivati in gruppo: nel loro paese il cammino è segno di una prova per essere adulti. Lo mettevano anche nel curriculum vitae per l’assunzione. Dal lontano oriente partivano in questo lungo viaggio da soli a circa 20 anni, con in bocca nessuna parola europea se non l’inglese. Una cortese gentilezza li contraddistingueva. Stefan si fa subito conoscere perché si era portato lo zaino di Armando quando questo aveva male alla caviglia. Poi diventa amico straniero di H. . Stefan viaggia sempre con un compagno che veste spesso un pigiama rosa e una misteriosa donna koreana che amava camminare in solitudine. Ma il gruppo koreano si è arricchito di molti volti tra cui Hahn il disegnatore del fumetto del nostro viaggio. Un ragazzo che frequentava l’accademia delle bella arti a Seul e faceva il disegnatore grafico. Per non parlare di altre due giapponesi (con nomi che sembravano fumetti Hikaru e Haruko). Hanno popolato di oriente il cammino sia per lo stile che per gli odori provenienti dalla cucina. Siamo riusciti per un compleanno a mescolare anche le cucine tra noi.


Non sono mancate due ragazze sudamericane (Bolivia- Selia e la Messicana con tutti i rimedi fatti di erbe), una ragazza polacca (Joana) sempre con l’ auricolare ma che a Santiago ci ha sopreso per averci regalato un reportage su tutti noi. Tutti componenti della family’s cammino.


Attorno alla tavola, la sera, nelle locande dei nostri cammini incrociati, questi volti piano piano sono diventate storie e da incontri casuali, appuntamenti. Ognuno cammina da solo le sue storie e la sera ci si mangiava sopra insieme. Talvolta ci si trovava anche per strada ma si bussava alla porta della possibile confidenza rispettando chi aveva bisogno di star solo. Dalle prime impressioni in bianco e nero, ogni storia si scioglieva in varie tonalità di colori e la fiducia riposta in alcuni di loro, tra sorprese e delusioni, non divideva il mondo in amici e nemici. Ma solo in storie che camminano, che ad ascoltarle più volte, talvolta per certi versi ritrovi anche la tua. Più i nostri destini si incrociavano, più le storie si narravano insieme e più la gioia dell’arrivo a Santiago, la nostra meta, celava la tristezza di una separazione imminente che ormai non era più facile, perché ci eravamo legati."






In fede lo scriba-accompagnatore M.





















CAPITOLO 4. Separazioni e lentezze

16-23 dicembre 2017 / Monte de Gozo –Finisterre

"C’era una volta una storia che parte da un punto e arriva ad un punto, in un tempo in cui c’è una tale urgenza di essere grandi che non si può vedere l’essere piccoli: la storia tra me e H. era giunta all’appuntamento con la separazione.

Prima o poi arriva questo appuntamento: siamo ad un giorno di cammino dalla nostra meta, Santiago de Compostela. Distrutti dopo una mega tappa per arrivare più vicino, vediamo già la città dal monte in cui dormiamo (Monte de Gozo). Anche se non ce lo diciamo, si sente odore di fine e separazione. Ma H. mi sorprende, vuole vedere cosa c’è di là del nostro legame e alla mattina presto mi dichiara “io vado da solo”.




Gli dico di no, perché sono responsabile per lui e non ha un cellulare per rintraccciarlo, per di più siamo vicini ad una città (Santiago) ben più grande di quanto incontrato finora. Mi chiede una sigaretta e poi…Senza farsi vedere se ne va!

Non lo trovo più, diramo la notizia della sua scomparsa tra gli amici nel cammino e chiamo l’Italia per avvisare dell’evento. Intanto accellero il passo verso Santiago, ma allo stesso tempo mi dico lo troverò. Giungo davanti alla Cattedrale e lo cerco: era lì, trionfante mi viene incontro con la Compostela già timbrata dichiarando di essere stato uno dei primi della giornata. Mi arrabbio e gli faccio capire che la sua fuga era grave. H. permaloso come è, non accetta la non celebrazione del trionfo e fa l’offeso per tutto il giorno. Oggi, che scrivo quasi ad un anno di distanza, ricordo che questo episodio mi è venuto a trovare più volte: vero la sua trasgressione al patto del cammino c’è stata. Ma lui ha spolverato in me un ricordo: quando mi sono interessato al mondo educativo tempo fa, mi ero votato ad una educazione libertaria e ora…? La responsabilità era scivolata nel controllo? Lo scopo del mio accompagnarlo era renderlo competente alla libertà e ora? Lo controllo o sono preoccupato per lui? H. mi dice “volevo solo dimostrare che ce l’ho fatta da solo”. Quante volte alla sua età ho sentito il controllo adulto come impedimento all’iniziativa? Beh ora me l’aveva fatta: solo in seguito in Italia gli riconosco che quel gesto anche azzardato aveva un senso e vedo come crescere passa attraverso le trasgressioni. Penso tutt’oggi che io ho fatto bene ad arrabbiarmi, lui ha fatto bene a trasgredire e ricordo con piacere quando a giugno dell’anno dopo, ci siamo rivisti, H. mi ha detto “peccato non aver festeggiato assieme quella vittoria”. Qui è lui che ha guidato me.

Comunque aveva sigillato qualcosa: eravamo arrivati. La gioia anche se a distanza tra noi, veniva celebrata in gruppo.



Si sentiva anche la magia di un giorno particolare, un giorno che probabilmente non avremmo dimenticato e penso che H. abbia sentito che aveva fatto qualcosa di grande, dopo aver atteso e faticato. La stessa Santiago e le sue luci ricordavano questo.









Sentivo che H. ora non aveva più paura della fatica anzi era infastidito della mia lentezza: sempre nell’idea che prima finisce la fatica, meglio è. Ma questo ha messo in luce un’altra separazione tra me e lui: siamo di due generazioni diverse. La mia lentezza era anche il mio ritmo, la sua frenesia era supportata anche dai suoi 16 anni. Abbiamo litigato, patteggiato, negoziato, ci siamo sopportati su questa differenza ma ci abbiamo anche fatto pace: la nostra diversità era la nostra ricchezza, non restava che integrarla. Le lentezze mi consentivano le riflessioni che la sua precipitosa voglia non permettevano, la sua energia mi ricordava una novità che sopraggiunge e deve raccontare qualcosa di inedito. Questo tira e molla ci ha ritmato fino al volo di ritorno ma ora anche se non riconoscente la sua spinta autonoma era più efficace, aveva imparato come muoversi. Si orientava dove prima non riusciva, aveva ascoltato anche se non sembrava. L’abitudine dei giorni assieme lo aveva reso più competente. Quindi ora non dipendeva più e se voleva andava avanti senza sbagliare meta. La sua energia e il suo zaino più leggero non solo nel peso, gli permettevano di fare più strada e in minor tempo. Il percorso da soli gli ha consentito di confidare cose della sua infanzia e del suo passato.

Ma la separazione si è vestita di un nuovo volto quando a Logoso abbiamo incontrato un ragazzo francese di Lion. Non aveva più soldi con sé ed era via di casa da tre mesi: il suo viaggio sembrava una fuga di casa. Non aveva più soldi da giorni e aveva fame: noi e altri due camminatori gli abbiamo offerto alloggio e riparo. Mi ero anche offerto a pagargli a Finisterre il bus di ritorno per Lion: ma a Finisterre non l’abbiamo mai più visto. Ci sono delle separazioni troppo drastiche per non essere perdite.

Il nostro cammino intanto andava incontro al mondo liquido : sia il clima più piovoso, sia la terra rendeva protagonista l’acqua. La Galizia si presentava sempre più nel suo vestito oceanico e il profumo dell’Atlantico si avvicinava. Spesso capitava di trovare H. rapito dal paesaggio."



CAPITOLO 5. Finis Terrae

20-22 dicembre 2017 / Finisterre

"C’era una volta una storia che parte da un punto e arriva ad un punto, in un tempo in cui c’è una tale urgenza di essere grandi che non si può vedere l’essere piccoli: la storia tra me e H. era giunta proprio alla fine.

Alla fine della terra dell’Occidente, dove finisce l’Europa e comincia l’oceano Atlantico, finisce anche la storia tra me e H. Gli ultimi passi sulla battigia




li hai voluti segnare scrivendo tutti i nomi della tua famiglia sulla sabbia:





Curioso nel punto più lontano da casa, hai voluto riscriverla, mentre i gabbiani facevano da spettatori.

Siamo partiti all’alba e siamo arrivati al tramonto:





Sulla strada per il faro che si bagna i piedi sull’Oceano, l’unica statua femminile di un pellegrino che noi abbiamo incontrato:



E proprio lì al faro abbiamo lasciato addormentare il viaggio:





Proprio là avrei voluto dirti H. quello che solo ora ti scrivo:

“Non so che rotte solcherai su quel mare, ne quali traiettorie percorrerai ma so che ho scoperto che dove finisce la terra (Finis terrae) comincia qualcosa altro (l’oceano) e che abbiamo scoperto insieme che dove finisce il fiato, estenuato dalla fatica di una salita, c’è un altro respiro per cui vale la pena. Non so cosa c’è al di là del mare, ma penso che valga la pena avventurare un progetto. Auguri M. “




60 visualizzazioni0 commenti
bottom of page